Ecco un secondo esempio di NATIVO DIGITALE:il piccolo Nicolò!
Una fila di matti
lunedì 9 febbraio 2015
venerdì 6 febbraio 2015
TECNOLOGIE E DISABILITA'
martedì 27 gennaio 2015
L'ora blu delle fiabe: Nel ghetto di Theresienstadt - Ilse Weber...per non dimenticare
In occasione della giornata della memoria voglio regalarvi la storia di una donna speciale, una poetessa di nome Ilse Weber, prigioniera nel ghetto di Theresiendtadt.
Ilse Herlinger Weber, nata a Wikowitz in Cecoslovacchia, autrice affermata di letteratura per
bambini e programmi radiofonici ( fiabe trasmesse alla radio), aveva 39 anni quando fu deportata a
Theresienstadt nel 1942. Fu lei stessa a chiedere di potersi occupare dei bambini malati rinchiusi in
quel campo; in ognuno di loro vedeva i suoi due figli, Hanuš, mandato a soli otto anni in Svezia, in
salvo presso la sua più cara amica e Tomáš, più piccolo, costretto a
condividere l’amara sorte dei suoi genitori.
Molte delle sue composizioni, cariche di struggente nostalgia, sono dedicate a Hanuš; altre ai
bambini di Theresienstadt; altre ancora rappresentano ciò che provava, vedeva e viveva
all’interno di quel quotidiano inferno.
150.000 furono gli ebrei adulti deportati a Theresienstadt. Questi organizzarono per i piccoli una
scuola clandestina, dove i bambini potevano disegnare, scrivere e persino recitare. 15.000 furono
i bambini e neonati ebrei deportati a Theresienstadt. Dopo la guerra ne ritornarono solo un
centinaio e nessuno di loro aveva meno di quattordici anni.
Questi bambini ci hanno lasciato in eredità circa 4.000 disegni e 60 poesie conservate nel Museo
Ebraico di Praga, testimonianze fotografiche, di ciò che vivevano
ogni giorno all’interno del Lager.
Al capolinea del treno su cui Ilse era salita volontariamente per non abbandonare i suoi
bambini malati, arrivata ad Auschwitz, pienamente consapevole della sorte che l’attendeva, fu
riconosciuta da un detenuto che era stato deportato con lei a Theresienstadt; lui la vide che cercava
di consolare i suoi bambini messi in fila davanti alle docce e le si avvicinò, mentre le sentinelle
erano lontane. Ilse chiese:
“È vero che possiamo fare la doccia dopo il viaggio?”. Egli non volle mentirle e rispose:
”No, questa non è una doccia, è una camera a gas e ora ti do un consiglio. Ti ho spesso
sentito cantare nell’infermeria. Entra con i bambini cantando nella camera a gas il più in
fretta possibile. Siediti con i bambini per terra e continua a cantare. Canta con loro ciò che hai
sempre cantato. Così inalerete il gas più velocemente, altrimenti verrete uccisi dagli altri
quando scoppierà il panico”.
La reazione di Ilse fu strana. Rise, come assente, abbracciò uno dei suoi bambini e disse:
“Allora non faremo la doccia”.
La canzone che cantò insieme a suo figlio Tommy e agli altri bambini quel 6 ottobre 1944 entrando
nelle docce di Auschwitz fu una sua ninna nanna: “Wiegala”. Da quel giorno, questa ninna nanna fu
cantata da altri bambini prima che entrassero nei gas di Auschwitz e rimase nella memoria dei
sopravvissuti come simbolo del massacro degli innocenti.
Willi Weber, marito di Ilse, detenuto nello stesso campo e destinato ad
Auschwitz, prima di partire nascose sotto terra in tutta fretta, nel capanno degli attrezzi, più di
sessanta fra poesie e canti che la moglie Ilse aveva composto nei due anni di internamento a
Theresienstadt. Queste composizioni testimoniano le innumerevoli tragedie di tanti bambini e
anziani che si sono consumate in quel campo di concentramento.
Willi, scampato all'olocausto,probabilmente si è salvato perché la sorte lo aveva destinato a tornare a
Theresienstadt per scavare tra le macerie del capanno e riportare alla luce e a noi le parole, i versi e
gli spartiti musicali che la moglie aveva composto durante i due anni di internamento.
Quelle poesie sono ora diventate patrimonio comune dell’umanità. Erano parole di conforto e
di speranza per i detenuti che le imparavano a memoria e vi si aggrappavano; luce nel buio
profondo di quel Lager che la storia ricorderà come il Lager dei bambini. Sono ninne nanne,
filastrocche, versi nati nelle notti insonni che Ilse passava in infermeria accanto ai piccoli malati,
dopo le lunghe giornate trascorse ad accudirli con lo stesso amore che avrebbero avuto le loro madri
se fossero state con loro.
Piccola ninna nanna
La notte s’insinua pian piano nel ghetto
nera e muta.
Prendi sonno, scorda il mondo tutt’intorno.
Abbandona al mio braccio il tuo capo piccino,
si dorme di gusto e al caldo con la mamma vicino.
Dormi, di notte tanto può avvenire,
di notte tutto l’affanno può svanire.
Figlio mio, vedrai:
un giorno, al tuo risveglio, la pace troverai.
Cammino vagando per Theresienstadt
Cammino vagando per Theresienstadt,
greve il cuore come piombo,
finché brusco il mio tracciato termina,
là accanto al bastione.
Là, ferma sul ponte,
rivolgo lo sguardo alla vallata:
quanto vorrei proseguire,
quanto vorrei andare ‘a casa’!
‘A casa’ – tu meravigliosa parola,
tu mi gravi nel petto,
me l’hanno portata via la mia casa,
non ne ho più una ora.
Mi volto affranta ed esausta,
quanto affanno in quel gesto,
Theresienstadt, Theresienstadt
– ma quando avrà fine il dolore? –
quando saremo liberi di nuovo?
lunedì 26 gennaio 2015
Flipped classroom: la classe capovolta
L'insegnamento capovolto o classe ribaltata si riferisce a una forma di apprendimento ibrido che ribalta il sistema di apprendimento tradizionale fatto di lezioni frontali, studio individuale a casa e interrogazioni in classe, con un rapporto docente-allievo piuttosto rigido e gerarchico.
L’insegnamento capovolto nasce dall’esigenza di rendere il tempo-scuola più produttivo e funzionale alle esigenze di un mondo della comunicazione radicalmente mutato in pochi anni a causa della globalizzazione e dell'avvento delle nuove tecnologie. Pertanto la scuola risulta essere incapace di diffondere saperi adeguati alle necessità dell'attuale società. Si è osservato anche che gli interessi degli studenti nascono e si sviluppano, ormai, sempre più all’esterno delle mura scolastiche. L’insegnante trova sempre più complesso sostenere l’antico ruolo di trasmettitore di cultura perché il web si presta per tale scopo in modo molto più completo, versatile, aggiornato, semplice ed economico.
L’insegnamento rovesciato presenta queste caratteristiche:
1 un lavoro a casa che sfrutta appieno tutte le potenzialità dei materiali culturali online,
2 un lavoro a scuola che consente di applicare, senza ristrettezze temporali, una didattica laboratoriale socializzante e personalizzata.
L'insegnamento capovolto punta a far lavorare lo studente prevalentemente a casa, in autonomia, apprendendo attraverso video e podcast, o leggendo i testi proposti dagli insegnanti o condivisi da altri docenti. In classe l'allievo cerca, quindi, di applicare quanto appreso per risolvere problemi e svolgere esercizi pratici proposti dal docente. Il ruolo dell'insegnante ne risulta trasformato: il suo compito diventa quello di guidare l'allievo nell'elaborazione attiva e nello sviluppo di compiti complessi.
Ufficialmente, i primi esperimenti sono stati condotti negli anni novanta da Eric Mazur, professore di fisica presso l'Università di Harvard.
Oggi questo metodo è usato per esempio dalla Khan Academy, che dà agli studenti la possibilità di seguire dei videotutorial da casa su Youtube e sono disponibili online anche degli interi corsi universitari o interi corsi per materia della scuola superiore italiana (Tvscuola).
I veri fondatori della didattica capovolta sono generalmente considerati Jonathan Bergmann e Aaron Sams, autori del libro “Flip Your Classroom: Reach Every Student in Every Class Every Day” Edito negli Stati Uniti nel 2012. A partire dal loro manuale e dai siti web della loro associazione, il flipped learning sta crescendo in modo esponenziale in tutto il mondo.
Guarda il video per capire come funziona questa nuova sperimentazione didattica :)
Tecnologia e Flipped classroom
Buona lettura !!!
venerdì 16 gennaio 2015
Vi posto un articolo su un tema più che attuale: la disoccupazione. E' interessante notare come la città di Marinaleda abbia reagito a questo fenomeno basandosi su principi di collaborazione e giustizia...
Marinaleda, la città con la disoccupazione allo 0% e le case a 15 euro
Marinaleda è un paese dell'Andalusia dove la disoccupazione non esiste e ci si può costruire casa con 15 euro grazie ad un sistema economico basato sulla cooperazione.
Marinaleda è un piccolo paese rurale a 100 chilometri da Siviglia. La piccola comunità di poco più di 2500 abitanti sembra aver scoperto il segreto per sconfiggere la disoccupazione: consapevole che la vera forza del paese era la terra, grazie anche alla visione utopistica del sindaco Juan Manuel Sánchez Gordillo, tutti gli abitanti sono stati impiegati nel settore agricolo sulla scia di un unico motto: nessuna competitività ma solo cooperazione.
Il piccolo comune nel cuore dell’Andalusia, in un arco di tempo di 30 anni, fondando la sua politica economica sul socialismo storico, è riuscito a garantire la sussistenza dell’intera comunità in cui il 70% della popolazione gode di un reddito sufficiente fondato sul lavoro nei campi e nell’ industria della trasformazione. Il resto dei residenti ha trovato invece collocazione lavorativa nei piccoli esercizi commerciali e nelle istituzioni necessarie come scuole ed uffici. A Marinaleda, grazie alla cooperativa Humar, fondata da Juan Manuel Sánchez Gordillo, eletto in età post franchista e che guidò nei primi anni 80 l’occupazione dei latifondi dei grandi proprietari terrieri da ridistribuire ai contadini senza terra, la disoccupazione è allo 0% contro il 30% della media nazionale. La terra è di proprietà della comunità e qui si producono, conservano ed esportano legumi, peperoni, carciofi ed olio d’oliva, vi sono inoltre un frantoio e una fabbrica di conserva. Tutti i lavoratori vengono pagati con lo stesso salario di 47 euro al giorno, indipendentemente dal lavoro, per sei giorni lavorativi, per un totale di 1.128 euro al mese.
Tutti i cittadini possono costruirsi una casa di 90 metri quadrati dando un anticipo di soli 15 euro, il terreno ed il progetto vengono forniti dal Municipio, il denaro viene prestato a tasso zero dal governo andaluso e gli stessi cittadini, a cui è richiesta solo la propria forza lavoro, decidono la quota mensile da versare per l’acquisto. Marinaleda garantisce inoltre una mensa scolastica a 12 euro al mese e una piscina pubblica a 3 euro per tutta l’estate. Gli spazi comuni sono curati dagli stessi cittadini che nelle “domeniche rosse” si impegnano per mantenere pulite strade, aiuole e giardini pubblici. Oggi lo stemma sulla bandiera tricolore del paese riporta la scritta “Marinaleda: una utopia verso la pace”, e il piccolo comune nel cuore dell’Andalusia è diventato un esempio da seguire di solidarietà ed uguaglianza per la sinistra di tutto il mondo e speriamo possa essere un punto di riferimento per tutti i governi della Terra.
Tutti i cittadini possono costruirsi una casa di 90 metri quadrati dando un anticipo di soli 15 euro, il terreno ed il progetto vengono forniti dal Municipio, il denaro viene prestato a tasso zero dal governo andaluso e gli stessi cittadini, a cui è richiesta solo la propria forza lavoro, decidono la quota mensile da versare per l’acquisto. Marinaleda garantisce inoltre una mensa scolastica a 12 euro al mese e una piscina pubblica a 3 euro per tutta l’estate. Gli spazi comuni sono curati dagli stessi cittadini che nelle “domeniche rosse” si impegnano per mantenere pulite strade, aiuole e giardini pubblici. Oggi lo stemma sulla bandiera tricolore del paese riporta la scritta “Marinaleda: una utopia verso la pace”, e il piccolo comune nel cuore dell’Andalusia è diventato un esempio da seguire di solidarietà ed uguaglianza per la sinistra di tutto il mondo e speriamo possa essere un punto di riferimento per tutti i governi della Terra.
La storia di Simona Atzori
La guardi parlare, sprofondata tra i cuscini del divano, e tuo malgrado ti trovi a fissare le sue braccia (o sono gambe?), il gesticolare delle mani affusolate (o sono i piedi?), l’agile movimento delle dita mentre sfoglia le pagine del suo libro e trova la pagina che cercava: «Ecco qui. È il punto in cui racconto che il 18 giugno del 1974 vengo al mondo e i miei si tengono per mano mentre decidono non di "accettarmi" ma di accogliermi con gioia infinita: sapersi amati fa assolutamente la differenza». Simona Atzori ha ormai calcato i palcoscenici del mondo, è volata sulle punte con l’étoile della Scala al "Roberto Bolle and Friends", è stata Ambasciatrice della danza nel Giubileo del 2000, ha aperto le Paraolimpiadi invernali del 2006 e oggi porta in giro per l’Italia "Me", il primo spettacolo realizzato interamente da lei, insieme alla sua compagnia "Simonarte Dance Company" e ai ballerini della Scala di Milano. Ma per molti resta prima di tutto "la danzatrice nata senza braccia". «Sono rimaste in cielo», annuisce serena. Intorno a lei, ballerina e pittrice, i grandi quadri accatastati al suolo, pronti a partire per la prossima mostra.
Parla rilassata, a "braccia" conserte, le "mani" sul grembo, poi le scioglie e le poggia a terra, dove diventano magicamente i suoi piedi. Di nuovo solleva un piede, lo porta alla testa e con eleganza sinuosa si ravvia i lunghi capelli ricci...
Simona, sono più le tue braccia o le tue gambe? Come le senti?
Domanda interessante (ride), non ci avevo mai pensato. Credo che per la maggior parte del tempo siano braccia. Sono vissuta qualche anno in Canada, dove mi sono laureata, e lì mi dicevano che ero proprio un’italiana da quanto gesticolavo. La sintesi perfetta avviene quando guido, un piede su freno o acceleratore, l’altra "mano" sul volante.
Come reagirono i tuoi genitori, Tonina e Vitalino, alla tua nascita?
Allora non c’era l’ecografia, fui una bella sorpresa, non c’è che dire. I primi due parti per mia mamma erano andati male, per questo mia sorella, la sua terza gravidanza, è stata chiamata Gioia. Poi sono arrivata io e mia madre aveva il terrore di perdere anche me. Quando si è svegliata dal cesareo e ha visto i volti cupi degli infermieri, che non le lasciavano vedere la sua bambina, è stata malissimo. Poi ha saputo che invece ero sana e salva, soltanto mi mancavano le braccia. Mamma e papà si sono abbracciati e hanno subito deciso il da farsi: mi avrebbero insegnato a prendere il ciuccio con i piedini. Già prima che io nascessi, mia madre sognava per me che io diventassi ballerina, mi aveva dentro e già immaginava di vedermi volare sul palcoscenico: il suo primo pensiero è stato la chiave della nostra vita, la sua positività ha dato a tutti noi il segreto della felicità..
L’essere ballerina, e quindi snodata, ti ha aiutato a vivere?La danza mi ha anche aiutata dal punto di vista fisico, è vero, ma non l’ho scelta io, è lei che ha scelto me, così come la pittura, ed entrambe le arti mi permettono di esprimere tutto il mio mondo interiore.
Ora però con "Cosa ti manca per essere felice?" sei anche scrittrice.
Il titolo del libro è la domanda che faccio sempre agli altri. A me non è mancato nulla, nella mia vita non ho avuto scuse né alibi, allora alle persone vorrei dire di non arrendersi alle prime apparenti difficoltà, di non scoraggiarsi mai perché, anche se ti manca qualcosa, puoi comunque essere felice. Di fronte alla foto di copertina, spesso la gente non si accorge che non ci sono le braccia e questo significa una cosa importante: nella vita bisogna guardare quello che c’è, non lamentarsi per ciò che non abbiamo. Qualcosa, tanto, manca a tutti, anche a chi ha braccia e gambe in regola: l’esteriorità si nota prima, ma se il vuoto è interiore il dolore è più straziante, più limitante di due arti rimasti in cielo.
Qual è il tuo messaggio?
La vita è un dono straordinario e non va sprecata. Io tengo incontri motivazionali in aziende, banche e scuole e sempre cito Papa Giovanni Paolo II: «Prendete la vita nelle vostre mani e fatene un capolavoro». È una verità assolutamente concreta: quando hai un dono sei felice, prima di tutto, e poi vuoi adornarlo, farlo più bello, e questo cerco di fare anch’io. Quando narro la mia storia sembra che racconti una favola, e in effetti è la "mia" favola, è proprio uno spettacolo di vita. Ognuno di noi può fare questo, basta crederci, purché non a metà, crederci veramente. Non è facile, ma nulla è facile nella vita.
Qual è il tuo rapporto con il Creatore?
Ringrazio il Signore non per la vita in generale, ma per avermi disegnata esattamente così. Il mio grazie quotidiano è cercare di rendere questa mia vita un capolavoro, come lui ha voluto che fosse.
Hai anche l’amore... Come lo hai riconosciuto in Andrea, il tuo fidanzato, istruttore di volo?
L’amore è soprattutto l’uomo che gioisce dei tuoi successi e li condivide. Due strade parallele ma una crescita insieme.
Perché non viene da dire che sei una disabile? Perché ti si conosce e si pensa "che fortuna ha avuto a nascere così"?
Perché è vero. Che cosa significa disabile? Chi lo è e chi no? E colui che è sano, fino a quando lo sarà? Non è questo che conta, non certo due braccia o due occhi, e spesso proprio nella caduta si scopre il senso della vita, come testimoniava Ambrogio Fogar e come racconta Mario Melazzini, il medico malato di Sla. Per molti questo è incomprensibile, perché guardano l’avere e il fare anziché l’essere.
Potessi chiedere al Signore le tue braccia, lo faresti?
In Kenya ho danzato per carcerati, malati di Aids e bambini di strada e mi hanno fatto la stessa domanda. Ti rispondo come a loro: se fossi nata con le braccia, tu ora non staresti parlando con me, ma con un’altra persona. E io amo Simona.
Iscriviti a:
Post (Atom)