venerdì 16 gennaio 2015

La storia di Simona Atzori





La guardi parlare, sprofondata tra i cuscini del divano, e tuo malgrado ti trovi a fissare le sue braccia (o sono gambe?), il gesticolare delle mani affusolate (o sono i piedi?), l’agile movimento delle dita mentre sfoglia le pagine del suo libro e trova la pagina che cercava: «Ecco qui. È il punto in cui racconto che il 18 giugno del 1974 vengo al mondo e i miei si tengono per mano mentre decidono non di "accettarmi" ma di accogliermi con gioia infinita: sapersi amati fa assolutamente la differenza». Simona Atzori ha ormai calcato i palcoscenici del mondo, è volata sulle punte con l’étoile della Scala al "Roberto Bolle and Friends", è stata Ambasciatrice della danza nel Giubileo del 2000, ha aperto le Paraolimpiadi invernali del 2006 e oggi porta in giro per l’Italia "Me", il primo spettacolo realizzato interamente da lei, insieme alla sua compagnia "Simonarte Dance Company" e ai ballerini della Scala di Milano. Ma per molti resta prima di tutto "la danzatrice nata senza braccia". «Sono rimaste in cielo», annuisce serena. Intorno a lei, ballerina e pittrice, i grandi quadri accatastati al suolo, pronti a partire per la prossima mostra.
Parla rilassata, a "braccia" conserte, le "mani" sul grembo, poi le scioglie e le poggia a terra, dove diventano magicamente i suoi piedi. Di nuovo solleva un piede, lo porta alla testa e con eleganza sinuosa si ravvia i lunghi capelli ricci... 


Simona, sono più le tue braccia o le tue gambe? Come le senti?
Domanda interessante (ride), non ci avevo mai pensato. Credo che per la maggior parte del tempo siano braccia. Sono vissuta qualche anno in Canada, dove mi sono laureata, e lì mi dicevano che ero proprio un’italiana da quanto gesticolavo. La sintesi perfetta avviene quando guido, un piede su freno o acceleratore, l’altra "mano" sul volante.


Come reagirono i tuoi genitori, Tonina e Vitalino, alla tua nascita?
Allora non c’era l’ecografia, fui una bella sorpresa, non c’è che dire. I primi due parti per mia mamma erano andati male, per questo mia sorella, la sua terza gravidanza, è stata chiamata Gioia. Poi sono arrivata io e mia madre aveva il terrore di perdere anche me. Quando si è svegliata dal cesareo e ha visto i volti cupi degli infermieri, che non le lasciavano vedere la sua bambina, è stata malissimo. Poi ha saputo che invece ero sana e salva, soltanto mi mancavano le braccia. Mamma e papà si sono abbracciati e hanno subito deciso il da farsi: mi avrebbero insegnato a prendere il ciuccio con i piedini. Già prima che io nascessi, mia madre sognava per me che io diventassi ballerina, mi aveva dentro e già immaginava di vedermi volare sul palcoscenico: il suo primo pensiero è stato la chiave della nostra vita, la sua positività ha dato a tutti noi il segreto della felicità.. 


L’essere ballerina, e quindi snodata, ti ha aiutato a vivere?La danza mi ha anche aiutata dal punto di vista fisico, è vero, ma non l’ho scelta io, è lei che ha scelto me, così come la pittura, ed entrambe le arti mi permettono di esprimere tutto il mio mondo interiore.


Ora però con "Cosa ti manca per essere felice?" sei anche scrittrice.
Il titolo del libro è la domanda che faccio sempre agli altri. A me non è mancato nulla, nella mia vita non ho avuto scuse né alibi, allora alle persone vorrei dire di non arrendersi alle prime apparenti difficoltà, di non scoraggiarsi mai perché, anche se ti manca qualcosa, puoi comunque essere felice. Di fronte alla foto di copertina, spesso la gente non si accorge che non ci sono le braccia e questo significa una cosa importante: nella vita bisogna guardare quello che c’è, non lamentarsi per ciò che non abbiamo. Qualcosa, tanto, manca a tutti, anche a chi ha braccia e gambe in regola: l’esteriorità si nota prima, ma se il vuoto è interiore il dolore è più straziante, più limitante di due arti rimasti in cielo.


Qual è il tuo messaggio?
La vita è un dono straordinario e non va sprecata. Io tengo incontri motivazionali in aziende, banche e scuole e sempre cito Papa Giovanni Paolo II: «Prendete la vita nelle vostre mani e fatene un capolavoro». È una verità assolutamente concreta: quando hai un dono sei felice, prima di tutto, e poi vuoi adornarlo, farlo più bello, e questo cerco di fare anch’io. Quando narro la mia storia sembra che racconti una favola, e in effetti è la "mia" favola, è proprio uno spettacolo di vita. Ognuno di noi può fare questo, basta crederci, purché non a metà, crederci veramente. Non è facile, ma nulla è facile nella vita.


Qual è il tuo rapporto con il Creatore?
Ringrazio il Signore non per la vita in generale, ma per avermi disegnata esattamente così. Il mio grazie quotidiano è cercare di rendere questa mia vita un capolavoro, come lui ha voluto che fosse.


Hai anche l’amore... Come lo hai riconosciuto in Andrea, il tuo fidanzato, istruttore di volo?
L’amore è soprattutto l’uomo che gioisce dei tuoi successi e li condivide. Due strade parallele ma una crescita insieme. 


Perché non viene da dire che sei una disabile? Perché ti si conosce e si pensa "che fortuna ha avuto a nascere così"?
Perché è vero. Che cosa significa disabile? Chi lo è e chi no? E colui che è sano, fino a quando lo sarà? Non è questo che conta, non certo due braccia o due occhi, e spesso proprio nella caduta si scopre il senso della vita, come testimoniava Ambrogio Fogar e come racconta Mario Melazzini, il medico malato di Sla. Per molti questo è incomprensibile, perché guardano l’avere e il fare anziché l’essere.


Potessi chiedere al Signore le tue braccia, lo faresti?
In Kenya ho danzato per carcerati, malati di Aids e bambini di strada e mi hanno fatto la stessa domanda. Ti rispondo come a loro: se fossi nata con le braccia, tu ora non staresti parlando con me, ma con un’altra persona. E io amo Simona.


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